venerdì 30 aprile 2010

Intervista a William Lucchesi, nome di battaglia Tito


INTRODUZIONE

- Cosa significava vivere nel regime fascista?

La vita a quei tempi poteva seguire tre strade: la repubblica di Salò, l’antifascismo o vivere imboscato da qualche parte. Ma per fare quella vita bisognava avere persone che ti aiutassero, infatti se la potevano permettere solo in pochi. Poi c’erano i ragazzi come me che sceglievano di non schierarsi, non per ideali ma perché semplicemente non conoscevano altre vie. L’antifascismo per me è iniziato dopo la morte di mio padre per mano dei fascisti, lo pestarono a morte solamente perchè portava addosso la sciarpa con i colori del Bologna.
Per farvi capire che cosa significava vivere nel regime fascista, vi racconto un breve episodio legato alla particolarità del nome William. Esso deriva da un personaggio di un libro che fu molto caro a mia madre, (Un Giorno a Madera) incentrato sul problema del matrimonio tra malati di tubercolosi. Questo nome, soprattutto dopo la morte di mio padre, mi costo tanto poiché quando Mussolini subì le sanzioni tolse tutti i nomi inglesi e li sostituì con quelli italiana; per il regime fascista io mi chiamavo Romano. Ovviamente il mio vero nome era quello dato da mia madre e non imposto da qualcun altro, così tutte le volte che mi chiamavano Romano ed io non mi voltavo i fascisti mi pestavano selvaggiamente. Un giorno, dopo avermi picchiato più del solito, mi scaricarono con un carretto di legno davanti a casa gonfio e tumefatto dalle botte. Bussarono al portone di casa e se ne andarono. La mia sorella che venne ad aprire neanche mi riconobbe da come mi avevano conciato. Dopo questo episodio giurai a me stesso che da quel giorno non avrei preso più botte dai fascisti, una notte alle due e mezzo mi alzai partì e lascai le mie due sorelle che rividi solo due anni più tardi.
- Sei venuto a conoscenza della resistenza tramite il partito o tramite altre fonti?
Sono venuto a conoscenza della resistenza e delle brigate partigiane subito tramite il partito perché per la vita che facevo sarebbe stato impossibile farlo autonomamente. Lavoravo fin dall’età di nove anni, tutti i giorni partivo la mattine alle sette e tornavo a casa la sera a mezzanotte quindi avevo tempo solo di dormire e ripartire il giorno successivo; altra questione era che a quei tempi i mezzi di informazione come la radio non c’èrano nel mio paese quindi non esisteva un modo semplice per arrivare alle notizie. Basti pensare a riguardo, che per sapere i risultati calcistici della mia squadra preferita dovevo percorre due chilometri a piedi per raggiungere la radio più vicina.
- Quali sono stati i primissimi compiti che ti sono stati assegnati, e quali quelli più difficili?
Il primissimo compito che mi assegnarono fu quello di preparare ed usare gli esplosivi. Mi facevano assemblare pezzi di plastico, che mi lanciavano tramite il paracadute aerei inglesi ed americani; sotto questo punto di vista gli alleati ci hanno sempre rifornito.
Sicuramente il compito più difficile era portare alle madri dei compagni caduti la notizia. Quando capivano che non c’era più niente da fare mi dicevano con le ultime forze “Tito, vai da mia mamma e dille che non ho sofferto”. E io ci andavo. Quanti giovani come voi ho visto morire accanto a me...
- Che cosa ti senti di dire sulle “violenze private” perpetrate dai partigiani nel dopo guerra dopo la caduta del regime fascista?
Nel dopo guerra c’èrano tante persone che risultavano far parte delle squadre partigiane o all’interno del partito comunista le quali non avevano mai combattuto; gente che aderì alla resistenza solo dopo la fine degli scontri. Succedeva, a volte che persone come queste approfittassero del loro ruolo all’interno delle proprie organizzazioni, per coltivare solo torna conti personali. Opportunisti.
Tanti fascisti che erano scappati in Brasile o in Argentina durante e subito dopo la guerra, ritornavano in Italia nel 47’-48’; questi individui pensavano che dopo due anni passati fuori dai confini nazionali sarebbero stati graziati dal giudizio dei partigiani. Immancabilmente il giorno dopo venivano trovati morti, non c’èra niente da fare. In Romagna questo avvenne molto spesso, ecco perchè Pansa ha potuto speculare sulla resistenza. Ma il signor Pansa dimentica che questi erano personaggi dal passato di carnefice.
- Quale era la disciplina all’interno delle brigate?
La disciplina era molto ferrea: mai bere per ubriacarsi, mai molestare una donna, mai abbandonare i compagni nello scontro. In particolare, durante il combattimento, se avevi un’arma automatica dovevi essere sempre l’ultimo a rientrare in modo che i compagni potessero assicurarsi di ripiegare in sicurezza e, se venivi catturato, ovviamente non dovevi parlare, nemmeno sotto tortura. Questo era facilitato anche dal fatto che ognuno di noi non conosceva il nome reale degli altri compagni, tutti avevamo un nome di battaglia.
- Cosa voleva dire essere un Gappista?
Essere nei GAP era forse perggio che essere nelle squadre partigiane. Nelle brigate e nell’esercito di liberazione combattevi sul fronte, il gappista invece doveva eseguire le sentenze dei comitati di liberazione. Ci ritrovavamo in 32 persone in una cantina, tre estratti a caso dovevano partire per eseguire la sentenza; prima di giustiziare il condannato, essa doveva essere letta a voce alta.
Non era facile, il condannato era pur sempre un uomo, magari con una famiglia. La lettura della sentenza e della condanna erano spesso accompagnate da urla e lacrime, ma daltronde si era in guerra, coloro che condannavo come avevan ucciso mio padre avevano ucciso o fatto uccidere molti altri, erano responsabili di varie atrocità.
A me in quanto gappista davano la caccia senza sosta. Mi spostavo di continuo per evitare di essere preso e ucciso. Per due anni non ho dormito due notti nello stesso posto.
- In che rapporti erano le brigate con la popolazione civile?
I civili erano la nostra forza. Se non fosse stato per la loro collaborazione sicuramente non ce l’avremmo fatta. Loro ci davano riparo, ci assistevano, ci sfamavano, anche se questo voleva dire per loro rimenere senza mangiare.
- Che ruolo aveva la donna nella resistenza?
Fondamentale. Si pensa che la staffetta sia stato un compito marginale, ma in realtà era altrettanto importante come combattere in prima linea. Inoltre, sotto le gonne, portavano viveri, messaggi, ma anche tanti armamenti per i partigiani. Proprio per questo motivo erano anche loro perseguitate; ne sono morte moltissime.
- Nell’aderire alla resistenza pensavi solo alla liberazione dell’italia o ad una vera e propria rivoluzione?
Io volevo cambiare il mondo. Dopo aver vissuto il fascismo e la guerra e guardato con ammirazione l’esperienza sovietica, speravo che il cambiamento arrivasse anche qua.
Cosa ne pensi della recente tendeza ad equiparare partigiani e repubblichini?
È una cosa vergognosa. Per essere stato partigiano mi danno 15€ in più al mese di pensione, ai vecchi repubblichini o ai vecchi componenti della decima mas ne danno più del doppio, 38€. Non è assolutamente giusto. Non è una questione di denaro, ma il principio ad essere profondamente ingiusto. I repubblichini, negli ultimi anni della guerra, erano alla stregua degli invasori, mentre noi abbiamo rinunciato a tutto per liberare l’Italia. Oggi con il governo Berlusconi, con la lega e fino a un pò di tempo fa con Fini, sei più stimato se sei un ex repubblichino che un ex partigiano. Ricordiamoci che noi abbiamo dato il sangue per arrivare a scrivere la Costituzione, riuscendo a creare una carta tra le più avanzate al mondo; ed essa è chiaramente antifascista e quindi in contrapposizione con tutto quello che rappresentava la repubblica di Salò.
- Come mai se nel CLN il 95% erano persone di sinistra, tra comunisti e socialisti, il primo governo ebbe da subito la DC in maggioranza?
Come nei paesi liberati dall’Armata Rossa si instaurò un governo comunista, così nei paesi liberati dagli alleati essi fecero in modo che si instaurassero governi che facessero da contrappeso all’Unione Sovietica. La loro influenza era evidente, ad esempio non permettevano alle brigate comuniste di marciare con il fazzoletto rosso nelle città liberate, ma il fatto più eclatante è stato sicuramente l’attentato a Togliatti. Infatti se avessero voluto ucciderlo, non ci sarebbe voluto niente. Fu un chiaro tentativo di scatenare insurrezioni popolari e dare così il pretesto alle navi americane per invaderci e reprimerci, come era accaduto poco prima in Grecia.
- Ci racconteresti di quando avete liberato la prigione a Bologna?
Ci travestimmo da fascisti e nazisti e facemmo finta di portare dei prigionieri dentro. Di notte la guardia non era alta. Una volta all’interno riuscimmo facilmente a sbarazzarci dei veri fascisti e ad aprire le celle per liberare i compagni. Tuttavia c’eravamo travestiti così bene che nemeno i compagni ci riconobbero. Dovete sapere che era un’abitudine dei fascisti far credere ai prigionieri di poter uscire per poi fucilarli, perciò inizialmente avevano paura e non volevano lasciare la cella. Ma alla fine fummo riconosciuti e liberammo la prigione.
- Grazie mille per la tua disponibilità, vuoi concludere tu questa intervista?
Grazie a voi. Vi dico solo, fate valere le vostre idee, non vi arrendete mai! Tra compagni rispettatevi sempre l’uno con l’altro, anche se la pensate diversamente. Ascoltatevi e discutete, ci stà che voi facciate cambiare idea a lui o che lui faccia cambiare idea a voi.

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